Questa storia nasce sullo sfondo del Delta del Mississippi e prende vita da una registrazione fatta dal musicologo e antropologo Alan Lomax nel 1948. I nomi dei protagonisti – Sonny Boy Williamson I, Big Bill Broonzy. e Memphis Slim, tre bluesmen attivi dagli anni ’30 – furono mantenuti segreti fino al 1990, quando erano ormai defunti: prima avrebbero rischiato per sé e i propri famigliari ritorsioni o la vita per quello che avevano detto.
In mezzo ai lavoratori dell’argine, ritmata dal lavoro nei campi di cotone, dalle fughe verso gli stati del nord degli Stati uniti o il Canada, dai ritrovi nelle chiese e nelle bettole, la musica che suonano, esprime un codice: il vecchio ma sempre vivo codice degli schiavi; fatto di sottintesi, di doppi sensi, di non detto, estraneo al padrone bianco dove, attraverso l’umorismo, l’ironia e la satira, si comincia a ribaltare la propria condizione di oppressione e sfruttamento.
Non rimane che amare questo blues che si attacca alla pelle, non rimane che maledire il destino, rinnegare Dio, appagarsi di piaceri fugaci e bottiglie vuote, celebrare la vita fin tanto che c’è, sghignazzare davanti alla morte. Il blues – come scrive Manu Baudez – non è fondamentalmente pessimista! La sua sofferenza, la sua melanconia, trasformate da una sensualità irresistibile, portano a un’affermazione trionfante della vita e dell’amore, del piacere sessuale, del movimento, della speranza. Il blues era una barriera, un baluardo contro un mondo ostile da sempre.