Home / Articoli,Sostanze psicoattive / Marcello Bersini: Coscienza e intelligenza artificiale (ALTROVE N°6 – 1999)

Marcello Bersini: Coscienza e intelligenza artificiale (ALTROVE N°6 – 1999)

MARCELLO BERSINI: Coscienza e intelligenza artificiale.

State lavorando alla tastiera del vostro futuribile computer Apple Junior. Computer ipotetico naturalmente, perché Apple Junior rappresenta il figlio di quel frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male che fu il primo personal computer, battezzato appunto Apple, la mela proibita, dai suoi inventori Stephen Wozniak e Steve Jobs. All’improvviso sul monitor di Apple Junior appare il seguente messaggio: COGITO ERGO SUM. Come reagireste? Renè Descartes, quando pronunciò la medesima affermazione, venne preso sul serio. Credereste anche ad Apple Junior? Quale potrebbe essere il significato di ‘penso’ e ‘sono’ per Apple Junior? Potrebbe questa giovane creatura cogliere la coscienza di sé? È corpo, È mente, o è entrambi? Generalizzando: può una macchina pensare?
Può una macchina pensare?
Ma cos’è effettivamente una macchina? Se per macchina si intende ‘qualcosa’ che fa ‘qualcosa’ allora la risposta potrebbe essere sì – infatti in questo senso 1’essere umano è una macchina. In realtà però quello che si vuole chiedere è più specifico: può una macchina ideata dall’uomo avere funzioni costitutive del pensiero? Esistono proprietà astratte, formali, strutturali che possono esser implementate su un supporto fisico qualunque e che possono essere caratterizzate come pensiero?
In questo caso, se potessimo rispondere affermativamente, il pensiero sarebbe lo stato di un substrato strutturale. L’ipotesi forte dell’IA (=Intelligenza Artificiale – qui a definire il genere di disciplina e a indicare il campo d’indagine) ponendosi su un piano decisamente filosofico e rispondendo affermativamente alla domanda, argomenta un’idea che ritiene vera: “Il calcolatore non è semplicemente uno strumento per lo studio della mente ma, piuttosto, quando sia programmato opportunamente, è una vera mente; …cioè i calcolatori letteralmente capiscono e posseggono altri stati cognitivi” (J. SEARLE).
Ovviamente siamo ancora nell’ambito del possibile. In questa prospettiva l’IA si propone come una ricerca per rendere simpatici i computer, alludendo con questo all’attuale e problematica modalità di interazione che ancora oggi deve procedere in modo esplicito e dettagliato (cioè antipatico).
L’ipotesi debole dell’IA si situa in posizione meno estrema, pensando al modello nel senso dell’utilità, come uno strumento provvisorio e semplificato rispetto alle funzioni intellettive umane. Però il suo pregio nello studio della mente consisterebbe nel fornirci uno strumento potentissimo. Si vuole rendere i computer schiavi più accettabili e affidare loro una parte del nostro lavoro mentale: è un atteggiamento che non impegna né sul piano filosofico, né sul come si ottengono i risultati, che sono l’unica cosa che conta. Una posizione decisamente utilitaristica che rischia di farsi sfuggire il motivo fondamentale della ricerca.
Dal punto di vista antropologico, nell’artificiale l’uomo sfoga il desiderio di ricreare l’intelligenza nel senso della sua essenza. Nella civiltà greca gli Dei venivano rappresentati come super uomini. Originariamente Galatea era una statua creata da Pigmalione. Ad opera finita l’autore se ne innamorò (e si innamorò di se stesso attraverso l’opera); allora Afrodite la rese una donna vera. Gli egiziani costruivano statue con sistemi idraulici in grado di muoverle (animarle). Per questo le statue incutevano paura e riverenza. Ed effettivamente tutta la storia degli automi è piena di amore-timore: bambole meccaniche, Faust, Frankestein; quest’ultimo è emblematico della paura dell’incontrollabile.
Molti sono convinti che l’IA incoraggi l’idea alienante che l’uomo non sia altro che una macchina. Già nel secolo scorso si è dimostrato che la macchina per certi aspetti poteva sostituire l’uomo, ed è appunto quando essa diventa importante che sorge la paura. Infatti tutti i momenti di cambiamento della storia moderna sono condizionati dall’idea di che cosa sia una macchina. Nell’ottocento il treno era il mezzo meccanico per eccellenza (in quel contesto parlare di macchina significava usare il vocabolario del treno). Oggi abbiamo disponibile il computer e perciò utilizziamo un diverso vocabolario: ci riferiamo semplicemente ad un diverso modello. Parlando di intelligenza penseremo al computer in quanto è questo che determina la nostra epoca. L’IA lo sceglie come strumento principe: il pensiero viene visto come processo computazionale, ossia una manipolazione razionale di simboli. La prospettiva antropologica sviscera il carattere ontologico del rapporto fra il soggetto e un oggetto che assume forme sempre più complesse e strabilianti.
Per la filosofia occidentale, quindi su un piano decisamente speculativo, l’IA è una disciplina che vuole capire e definire l’intelligenza. È’ il problema mente-corpo ereditato da Cartesio che interessa biologi, neurologi e psicologi (tutta la storia della psicologia e dell’IA può essere raccontata come una reazione a questa profonda intuizione e ai suoi potenti influssi): come mente e corpo si influenzano? E più precisamente: come i1 fenomeno mentale è irriducibilmente psicologico e allo stesso tempo dipendente da una base meccanica – cervello e sistema nervoso -? Il problema viene affrontato dall’IA nello studio dell’elaborazione di informazioni da parte di un processore che può non essere biologico. Viene offerto, sotto sotto, come modello di mente, una elaborazione di informazioni di tipo computazionale.
Quindi, l’ipotesi forte è:
MENTE:CERVELLO = PROGRAMMA:COMPUTER
Mente e programma: software, manipolazione di simboli
Cervello e computer: decodificatori, agenti che trasformano i simboli in azioni o funzioni
Le operazioni mentali sono operazioni meccaniche la cui natura non dipende dalla struttura fisica che le rende possibili. Ma già le prime conseguenze all’idea dell’ipotesi forte sono inquietanti:
Visto che l’intelligenzaè una serie di operazioni meccaniche anche il termostato è intelligente (considerandolo una forma primitiva di pensiero).
La coscienza come capacità di comprendere un modello di se stessi non è il presupposto del pensiero ma un possibile, non necessario, risultato: quindi anche nella macchina, come nell’uomo, sarebbero possibili diversi gradi di coscienza (un computer molto potente potrebbe sperimentare un qualche grado di coscienza).
L’impresa dell’IA di capire e definire l’intelligenza è ambiziosa e, nonostante oggi prenda le forme di questo rapporto con il meccanico e l’artificiale, appartiene ad un antica tradizione filosofica: il riduzionismo, che nel nostro secolo ha preso la forma del fisicismo. Questo paradigma afferma che tutte le leggi sono riconducibili a quelle della fisica. L’ipotesi forte e perciò fondata su un riduzionismo ontologico: tutto è materia. Ma in un isolamento nomologico (nomos=legge) dove le leggi della fisica sono spieganti ma non spiegate, si va incontro a serie difficoltà ontologiche, non si riesce a inquadrare il significato: dal punto di vista materialista non sembra essere intelligibile il rapporto fra manipolazione di simboli e significato.
Nel 1936 il matematico inglese Alan Turing sviluppò le basi teoriche dell’informatica, introducendo in particolare un modello astratto di macchina calcolatrice programmata, detta appunto Macchina di Turing (MT). Egli prese spunto da un’analisi del processo mentale di calcolo e, benché il suo lavoro fosse puramente matematico, Turing usò a più riprese una terminologia antropomorfa parlando di ‘stati mentali’ per riferirsi a configurazioni interne della macchina. Pochi anni più tardi incomincio ad accarezzare il sogno di costruire fisicamente tale macchina, continuò a usare l’analogia originaria parlando del suo progetto come della costruzione di un ‘cervello’. Il suo problema era di definire il concetto di ‘computazione’ che fino ad allora era sostanzialmente un concetto intuitivo: un insieme di regole e direttive atte a rispondere ad un dato problema, cioè un ‘algoritmo’. Le MT sono macchine manipolatrici di simboli in grado di risolvere algoritmi specifici. Dal concetto ‘intuitivo’ di algoritmo riuscì ad ottenere un risultato operativo ‘formale’.
A Turing stava a cuore l’evidenziazione dell’essenza del concetto di meccanismo e, secondo la sua analisi, l’essenza è data dalle istruzioni che ‘muovono’ un dispositivo le cui parti sono inessenziali, Turing considerava irrilevanti i livelli riduzionistici di spiegazione, quali ad esempio la fisica o la chimica: soltanto lo ‘schema logico’ di questi stati poteva essere realmente rilevante. L’affermazione era che qualsiasi cosa un cervello facesse, lo faceva in virtù della sua struttura in quanto schema logico. Era materialismo ma non certo di un’identità stretta fra evento mentale e processo cerebrale, poichè per lui l’evento mentale è un fenomeno fisico (non ulteriormente specificato) logicamente strutturato.
La conseguenza empirica del lavoro di Turing è riassunta nella tesi di Church: non esiste una funzione numerica che l’uomo e non una MT possa computare. Altri matematici hanno proposto indipendentemente altre definizioni formali di algoritmo: sono tutte risultate equivalenti alla definizione di MT.
Il concetto epistemologico di computabilità, considerato in un certo senso assoluto, ha incoraggiato il progetto di meccanizzazione dell’intelligenza. Turing in questa direzione ottenne un altro risultato notevole: dimostrò che in realtà ogni possibile MT può essere ‘simulata’ da un’unica macchina, per questo chiamata Macchina di Turing Universale (MTU). Tale MTU è il Personal Computer che fu decisamente una innovazione di dimensioni gutemberghiane (c’è chi afferma addirittura che la libertà personale in ogni Paese si possa misurare in base al numero di PC in possesso degli individui).
Che relazione può avere una MTU con una definizione di intelligenza?
Supponiamo un problema ipotetico:
Pensiero: la ricerca della conoscenza
codificato in problema aritmetico
input
MACCHINA DI TURING UNIVERSALE
Output
decodificato: soluzione del problema aritmetico
Soluzione del problema della conoscenza.
Quesito: quando la MTU risolve il problema, pensa? ha coscienza? È intelligente? Turing risponderebbe che non esistono ragioni per negare il fenomeno alla macchina quindi, se supponiamo di sì, come discriminare 1’intelligenza?
Turing non era certo convinto che il linguaggio dei numeri naturali fosse sufficiente per codificare ogni problema, ma il suo assunto fu certo un grosso passo avanti nella possibilità di simulare artificialmente il pensiero. Lo stesso atteggiamento non polemico ma propositivo lo ebbe nel trovare il metro di misura per l’intelligenza, che in futuro queste macchine avrebbero dimostrato di avere. Nel “Discorso sul Metodo” (1637) René Descartes aveva sostenuto che nessuna macchina avrebbe potuto rispondere tanto bene in modo da trarre in inganno facendosi credere una persona. Turing, ribaltando tale tesi, propone di risolvere il problema grazie ad un test detto ‘prova dialogica di competenza’. una macchina può essere capace di prestazioni confrontabili a quelle umane se è in grado di conversare con un uomo senza che questo si accorga di conversare con una macchina. Per l’IA classica quindi non era di estrema importanza né il materiale con cui è costruita una qualsiasi macchina, che non ha a che fare con la funzione calcolata, né i particolari costruttivi dell’architettura funzionale dal momento che architetture differenti – sfruttando programmi diversissimi – potrebbero calcolare la stessa funzione ingresso-uscita. Il percorso è stato tracciato, incalcolabile il contributo del visionario predigitale Alan Turing, e ora la mutante forma del nucleo teorico sta passando per la contrada del connessionismo, che è poi la ripresa del vecchio paradigma cibernetico.
Quali prospettive per il futuro?
Nel mondo scientifico la cibernetica ha segnato l’importante passaggio dal ‘modello di spiegazione dell’energia’ al ‘modello di spiegazione dcll’informazione’ (Timoty Leary sostituisce la formula einsteniana E=mc’ con l’equazione cibernetica I=mc’ – dove I sta per Informazione). Filosoficamente è interessante il salto concettuale, il passaggio da una scienza come la fisica che descrive gli eventi all’interno di sistemi chiusi, alla cibernetica che li descrive nell’ambito di sistemi aperti: l’informazione circola e si arricchisce. Abbandonata come modello negli studi sui comportamenti intelligenti, la cibernetica fu ripresa negli anni ottanta dopo che la scienza della computazione dovette ammettere che i suoi modelli (in sostanza le MT) non riuscivano a progredire oltre certi limiti. I connessionisti facevano rilevare che la MT era troppo lontana dal ‘modo’ in cui opera il cervello. Ecco Ie differenze: il numero di neuroni dentro un cervello è enorme; quello di unità funzionali dentro un calcolatore molto più basso. I neuroni sono dispositivi estremamente lenti; il passaggio delIe unità di informazioni (bit) nei computer è velocissimo. I neuroni usano pochissima energia; i computer parecchia e mancano di attività chimica. Il cervello compie operazioni analogiche ed elabora in parallelo; il computer opera sequenzialmente e non fa operazioni analogiche.
La strada giusta per i connessionisti non è l’architettura funzionale delle macchine manipolatrici di simboli; per svolgere l’impegnativo compito di riprodurre l’intelligenza proposero ‘reti neurali’ che simulano i processi stessi del cervello (modello cibernetico detto connessionista). Per farlo imitano la struttura del cervello con diversi processori (esecutori di calcolo), altamente interconnessi tra loro e in cui la programmazione consiste nel migliorare le connessioni giuste a scapito di quelle sbagliate, si da arrivare a risultati cognitivi complessi. La capacità delle reti di apprendere dall’esperienza e di tollerare le imprecisioni della vita reale, è ciò che li rende molto più plausibili biologicamente. Eppure per computare le funzioni matematiche non c’è macchina connessionista che possa rivaleggiare con una MT. I livelli che consideriamo di ‘bassa’ intelligenza (problemi inerenti la visione, il riconoscimento degli oggetti, l’orientamento, aspetti di comprensione del linguaggio) sembrano meglio simulabili con soluzioni connessioniste, visto l’enorme numero di informazioni che la realtà richiede; meglio adatta alle MT è l’attivita intellettuale ‘alta’ (funzioni matematiche) che coinvolge un bassissimo numero di informazioni.
Filosoficamente il problema del connessionismo è di non essere in grado di spiegare mediante un isomorfismo funzionale come si passa dal funzionamento neurale (delle connessioni) a processi mentali superiori. Gli elaboratori simbolici (MT) fanno il contrario: spiegano i processi mentali superiori ma non riescono a stabilire un isomorfismo funzionale a livello dei neuroni del cervello. Probabilmente, raggiunto lo stallo definitivo, ulteriori progressi si otterranno con la combinazione dei due modelli anche se per ora non si sa esattamente come. Forse sarebbe necessario, come afferma Minsky, dare alle reti neurali lo stesso tempo che diamo agli uomini per arrivare alla maturità intellettuale. Oppure prestare ascolto alle voci dei visionari del silicio che ci presentano futuri alla Blade Runner con opzioni ancora inconcepibili. Ci dicono con una presunzione da mistici meccanici che in un futuro prossimo la convergenza fra tecnologie biologiche e informatica, faranno della forma umana una questione di scelta.
Due delle principali categorizzazioni della forma umana saranno l’umano come macchina e l’umano in macchina: il primo un ibrido-integrazione bio-macchina, l’altro una vita elettronica su reti computer. Il nostro apparato neurale opererà in silicio proprio come in precedenza aveva operato sulle strutture biologiche del cervello. Il bruco organico di carbonio potrà trasformarsi nella farfalla di silicio immagazzinando, digitalizzando memorie e credenze, pensieri e intelligenza umana, in strutture informatiche, in forma elettronica vivente? È necessario decostruire, minimalizzare e digitalizzare ogni stimolo sensoriale per potersi registrare nella coscienza. Trasmetteremo su base dati la nostra personalità usando quelle che saranno le nuove generazioni di software psicoattivi, programmi che consentiranno di immagazzinare la nostra routine quotidiana. In futuro la lettura passiva delle nostre vite verrà sostituita dalla riscrittura attiva, sicché sarà possibile rivivere le esperienze del passato. Oppure quegli stessi programmi verranno implementati in creature di Turing non piu immobili sopra le scrivanie, ma ibridi liberi di relazionare sensorialmente con la realta fisica (replicanti?).
Cibernetica deriva dal greco kubernetes che significa ‘pilota’. Cosi il cibernauta è colui che è affascinato da tutte quelle informazioni necessarie per una navigazione autosufficiente della realtà in cui viviamo, e per pilotare le idee e il pensiero in nuovi spazi dimensionali. Il ciberpunk è già un estremista informatico; sono talvolta paragonati ad alchimisti adepti del PC: di fronte allo ‘specchio magico’ del computer si trasportano in mondi di fantasmagorie caleidoscopiche con ‘simholi segreti’ e ‘parole di potere’. Il linguaggio di questi futuri primordiali sarà iconico e trasmesso digitalmente tramite fibre ottiche lampeggianti nei ricevitori occhio-fonici di realtà virtuale. Il ciberpunk, o chiunque lo voglia, potrà incontrare altri come lui in dimensioni evanescenti ma presenti, mondi virtuali su misura. Queste esperienze extracorporee saranno possibili grazie alla tecnologia mutazionale dei cibervestiti. È Ciberia questo mondo in cui il cervello potrà navigare a piacere. Il ciberspazio quindi come una matrice allucinatoria: “…è un’allucinazione consensuale”, ci dice William Gibson, “come se con questi strumenti sia possibile mettersi d’accordo e condividere le stesse allucinazioni. In effetti stiamo creando un mondo. Non è in realtà un posto. Non è in realtà uno spazio. ” spazio nozionale, concettuale”.
Einstein, Heisenberg, Plank, Bolu e altri determinarono gli elementi fondamentali dell’universo, unità informazionali alle quali il fisico Murray Gellmann diede il nome di ‘quark’ (termine preso in prestito da un romanzo di James Joyce): piccole particelle -bit- subatomici vorticanti che si raggruppano in configurazioni momentanee provviste di logica geometrica, pezzetti di informazione di tipo acceso/spento (yin/yang?), grappoli di informazioni quasi pure congelate.
Così lo psicologo visionario Timoty Leary descrive tutto ciò: “Pensate all’aggiustamento da capogiro necessario per questo. L’universo descritto da Einstein e dagli scienziati nucleari è alieno e terrorizzante. Caotico. La fisica quantistica è, in un senso del tutto letterale, un folle trip in acido! Ne è postulato un allucinatorio universo da ‘Alice nel paese delle meraviglie’ in cui tutto è in mutamento. Come hanno detto Heisenberg e Jimi Hendrix: “nulla è certo tranne l’incertezza”. La materia è energia. L’energia è materia con accelerazioni di vario tipo, Le particelle si disciolgono in onde. Non ci sono le direzioni su e giù in un film quadridimensionale. Tutto dipende dal vostro atteggiamento, cioè dall’angolo dal quale vi avvicinate ai mondi reali della caotica”. La psicologia quantistica (o cicologia), forte della teoria einsteiniana della relatività indicante che le realtà dipendono dai punti di vista, e in virtù del principio di Heisenberg che afferma esserci un limite alla determinatezza oggettiva, esaspera il tema della singolarità del punto di vista assegnando ai cervelli di ognuno la responsabilità della costruzione di realtà. La linguistica quantistica ci dice che nella determinatezza soggettiva si creano i propri mondi spirituali.
Il cervello, questo computer digitale organico di un chilo (computer di carne diceva Mynsky) che elabora cento milioni di volte più informazioni del resto del corpo che pesa cento volte tanto, che è fornito di cento miliardi di centri micro informatici (neuroni), è ancora una volta nella possibilità di subire l’attivazione dei suoi complessi circuiti detti siti recettori: attivazione cibernetica in ‘videolandia’.
Poi, ancora, crionica, clonazione, nanotecnologia, macchine replicanti a livello atomico nelle singole cellule biologiche, controllo evolutivo della specie, vite in ‘virus informatici’, ‘interfaccia mioelettrica e….insomma quale diramazione dendritica di possibilità promette l’orizzonte artificiale. Parafrasando Arthur Clarke, a un certo livello evolutivo la tecnologia risulta indistinguibile dalla magia: è un fatto mistico. Digitale fa rima con spirituale. Nelle possibilità che le evoluzioni dell’IA e delle scienze cognitive e cibernetiche permetteranno, un individuo potrebbe esistere sotto molte forme simultaneamente’. “Che significato abbia la parola ‘io’ in una situazione del genere”, ci dice ancora Leary, “sarà materia di studio per i filosofi. Noi riteniamo che la coscienza persisterebbe in ciascuna delle forme indipendentemente, inconsapevole dell’automanifestazione delle altre forme se non in comunicazione con esse”.

Related Post