Anna Lisa Cantelmi: L’uso terapeutico delle piante tra credenze, superstizioni e riti religiosi
“Poiché si può fare senza medico, non già del medicamento. Il quale, intendiamoci, non è la cosa che guarisce. È quella che – fatta ragione dei tempi e della moda – viene per il momento ritenuta atta a guarire…” Virgilio
Quindi è ponendo attenzione a quei fattori che Virgilio chiama tempi, moda e momento, nel senso di “presente”, e che noi definiamo nella contestualizzazione storica, culturale e religiosa, che si evidenziano il concetto di malattia e di cura, nonché quello di medicina.
Appare in questo modo che, nelle società cosiddette tradizionali, la medicina è il riflesso del “proprio pensiero”, comprendendo in questo termine la metafisica, i principi, le visioni cosmogoniche e cosmologiche, i riti e le iniziazioni, nonché il simbolismo e i miti. Tutto questo costituisce la “tradizione”, intesa come ciò che veniva trasmesso dall’origine dei tempi, o almeno dell’uomo, così come esprime la derivazione etimologica della parola (da “trado” cioè “conseguire, trasmettere”). Ed è con questa accezione che faremo riferimento alla nozione di tradizione, quindi: società tradizionale, uomo tradizionale e medicina tradizionale. In una civiltà tradizionale l’uomo ha una origine divina e trascendentale; l’uomo chiamato “tradizionale” è visto in maniera globale, non vi sono barriere tra il sacro ed il profano. Per queste popolazioni a dire il vero non vi è il profano, tutto è sacro e l’essere o l’oggetto si mutano in “ierofania”, in manifestazione del sacro e del divino, inteso come manifestazione degli aspetti della realtà originaria, ciò che dà vita. Solo nel mondo moderno si è creata la separazione tra il sacro e il profano. Alcune forme di manifestazione del sacro creano nell’uomo moderno un certo disagio in quanto gli è difficile accettare che il sacro possa manifestarsi per esempio nelle pietre o negli alberi, che non vengono adorati in quanto tali, ma per il fatto di costituire delle ierofanie, “mostrano” cioè qualcosa che non è più albero, né pianta, ma il sacro. Con questa semplice nozione entriamo nel mondo della metafisica, ciò che si colloca al di là della fisica, nel senso della natura, sostanza delle cose, che è dislocato nel campo dell’infinito, dell’illimitato, della possibilità universale, oltre il materiale, l’immateriale, l’uomo ed il divino. In altri termini l’origine, i principi universali. Occorrono così mezzi di trasmissione e di realizzazione per la metafisica atti a far comprendere all’insieme dell’umanità l’origine e la natura delle cose. Tali mezzi si rivelano nei simboli e nei miti per la trasmissione, e nei riti e le iniziazioni per la realizzazione.
Col simbolismo si esprime l’unione tra il manifesto e il non manifesto con il mondo dei principi. È un supporto che consente all’uomo di cogliere i diversi stati dell’essere per ascendere verso il principio, prescindendo dalla ragione. Il simbolo è quindi una sorta di equivalenza che, partendo da oggetti percettibili, consente una presa di coscienza per livelli superiori, non percettibili abitualmente.
LE PIANTE SIMBOLICHE
Una pianta che rispecchia in pieno questa analogia, se pur solo nella visione cristiana, è la Passiflora, simbolo della “Passione di Cristo”. Questa pianta fu portata da un padre agostiniano nel 1610 dal Messico, dove veniva chiamata “granadilla”. Il sacerdote la mostrò subito ad un confratello, padre Giacomo Bosio, che ne fu talmente meravigliato da scrivere il “Trattato sulla Crocifissione di Nostro Signore” con la prima e dettagliata descrizione del fiore. I filamenti disposti a raggiera ricordano la corona di spine, lo stilo al centro la colonna della flagellazione, gli stigmi i chiodi, lo stame, la spugna imbevuta di aceto o il martello, le 5 macchie rosse sulla corolla, le 5 piaghe. Quindi concentra in sé tutti gli strumenti della Passione. La Passiflora rappresenta l’oggetto percettibile, il simbolo attraverso il quale si esprime un concetto di religiosità in questo caso cristiana. Un altro livello di simbolismo è rappresentato dalla Rosa, che sicuramente esprime un legame con l’amore, ma che partendo da contesti culturali diversi, esprime significati altrettanto differenti. Fiore mariano per eccellenza, nella religiosità cristiana cambia attributo rispettivamente al colore. Per cui le rose gialle erano le rose dei Re Magi che avevano portato l’oro al Bambin Gesù; le bianche erano le rose della Santa Vergine; le rosate quelle del Bambin Gesù; infine le rose rosse, evocando il sangue del figlio di Dio, erano emblema della Passione di Cristo. Mentre per i cristiani questo fiore dal colore bianco era il simbolo della vergine Maria, per i Greci rappresentava Afrodite. Secondo il mito questa Grande Madre nacque dalla schiuma provocata dai genitali di Urano che, recisi da Crono, furono buttati in mare. La dea emerse cavalcando una conchiglia e contemporaneamente spuntò anche un ceppo spinoso, sul quale gli dei stillando nettare fecero fiorire rose bianche. Questi fiori cambiarono subito di colore quando un giorno Afrodite correndo in aiuto ad Adone, che era stato ferito da un cinghiale, si punse un piede e macchiò di sangue la pianta, che diventò rossa.
Nella Santeria cubana, le rose e soprattutto l’essenza di rose, sono legate a Chango, Dio del fulmine, del tuono, del ballo, della musica e della bellezza virile, che poi fu sincretizzato con Santa Barbara.
ESEMPI DI SIMBOLISMO SULLE PARTI DEL CORPO UMANO
Un settore privilegiato del simbolismo sembra essere anche il corpo umano. Nei testi tradizionali infatti, varie parti del corpo vengono usate come simboli, possiamo citare a riguardo due esempi che risultano abbastanza esplicativi:
– la zona dei reni, o dei lombi, corrisponde alla “porta degli uomini” cioè al passaggio dallo stato infantile all’età adulta. Se detto passaggio avviene in modo errato si potranno manifestare lombalgie più o meno tenaci;
– i calcagni sono, in alcune tradizioni, il punto di partenza della creazione dell’uomo. Esiste una malattia di decalcificazione del calcanèum che non si produce se non durante l’adolescenza, cioè nel momento in cui le forze impiegate per la creazione dell’individuo devono mutare direzione.
IL MITO E LE PIANTE
Abbastanza affine al simbolo, il mito si differenzia da quest’ultimo per l’utilizzo di una storia o di un racconto per trasmettere la visione della “realtà superiore”. Un mezzo più ampio e descrittivo, non più definito, circoscritto, grafico, ma che conserva come punto di unione con il simbolismo il senso dell’efficacia in relazione a colui che lo riceve. Il mito descrive le varie e a volte drammatiche irruzioni del sacro nel mondo. E queste irruzioni “fondano” realmente il mondo e rivelano la nascita di una realtà, che sia totale come il cosmo o solo un frammento di essa, un’isola, una specie vegetale. Un esempio di mito legato a una pianta potrebbe essere quello dell’origine dell’Alloro, strettamente legato nella tradizione occidentale al Dio del Sole, Apollo, connesso con la medicina, la musica, la poesia e l’ispirazione profetica. Quest’ultimo si era perdutamente innamorato di Dafne, ninfa selvatica, legata ai boschi, alla selva, che sfuggiva correndo, angosciata, le offerte del Dio. Esausta dopo tanto scappare dalle grinfie di Apollo, Dafne chiese a suo padre Penèo, dio fluviale, di farle cambiare aspetto. Egli acconsentì a trasformarla nella pianta di Alloro. A poco a poco, la sua pelle si mutò in scorza sottile, la chioma in fronde, le braccia in rami, i piedi in pigre radici e il volto nella cima di un Lauro. Apollo subito abbracciò l’albero e sentì che il cuore della ninfa ancora batteva sotto la corteccia e cingendo con più forza i rami dichiarò che se quella non poteva essere la sua sposa, sarebbe stata sicuramente la sua pianta. Così l’Alloro divenne il simbolo della profezia, del vaticinio, della poesia, delle arti e delle imprese eroiche. Il tempio principale del culto e l’oracolo di Apollo erano a Delfi, dove la Pizia masticava foglie di Alloro per favorire la trance e fare vaticini. Secondo alcuni le foglie di questa pianta potevano pensare e avevano la capacità di conoscere i più riposti pensieri, per tale motivo se ne cingevano il capo le Sibille e gli antichi indovini.
Altro mito cosmogonico di questo albero solare è quello che si riscontra tra i Guaranì delle foreste del Paraguay, che la considerano come una delle immagini dell’albero cosmico, dell’asse del mondo, le cui ceneri miste a miele purificano. È l’albero del protosciamano, dell’eroe solare. Con il suo legno si costruisce l’urna dove viene deposto lo scheletro dei bambini morti da cui si ottengono responsi divinatori. È detto anche “verga del creatore”, tramite dell’acqua della vita.
IL RITO E LA GUARIGIONE
Il primo mezzo di realizzazione per i concetti metafisici è costituito dal rito, che, inutile precisarlo, non è semplicemente una “cerimonia” e non si basa sempre sulla stessa intenzionalità. Per esempio, in una società tradizionale, il rito risponderà alla volontà di reintegrare l’uomo nel divino, perseguendo questo scopo attraverso l’uso cosciente e orientato dell’energia spirituale veicolata dai simboli e dai miti. Tralasciando i riti esoterici, riservati a una élite e che richiedono un’iniziazione (secondo mezzo di realizzazione), ci occuperemo di quelli sociali, liturgici ed in particolare di guarigione.
L’IMPORTANZA DELLA VISIONE DEL MONDO
Con questi concetti metafisici fondamentalmente ci orientiamo verso la ricerca immediata dei principi universali, mentre per quanto riguarda l’ordine sensibile, ci troviamo al cospetto delle cosmogonie e delle cosmologie. Il termine cosmos in greco ha il significato di “ordine”. La genesi di questo ordine si definisce cosmogonia, mentre l’organizzazione e la struttura stessa del mondo, cosmologia. L’oggetto delle cosmogonie tradizionali è il passaggio dal caos all’ordine, quello che nell’ottica cristiana viene definito “creazione”, per cui il processo completo, che partendo dal principio supremo e passando attraverso il caos e l’ordine successivo, porta al principio. Deduciamo che la manifestazione del mondo suppone una rottura dell’“Unità Principale”, che determina in primo luogo una dualità. Ed è quest’ultima che tutte le tradizioni considerano quando parlano di Cielo e Terra. In secondo luogo, le cosmologie pongono l’accento sull’aspetto ternario della creazione: Cielo-Uomo-Terra. Ne consegue un aspetto quaternario di 4 elementi: Aria-Acqua-Terra-Fuoco, che andranno a rappresentare i costituenti base della natura del mondo.
Se consideriamo le cosmologie come un’applicazione dei principi universali, ne ritroviamo risonanze a vari livelli, in maniera specifica in medicina.
Non è un caso che nel mito cosmogonico, in linea generale, l’albero è l’immagine dell’unione tra Cielo e Terra. Probabilmente non è neanche un caso che per molte popolazioni l’uomo nasca da un vegetale. L’albero della vita è un motivo ricorrente, seppur con varianti diverse. Per esempio, nella visione mitica cosmogonica degli indù, è una pianta di Loto a spuntare dall’ombelico di Visnù e i petali del fiore di quel Loto si trasformano in uomini. Oppure, nel mito degli zingari, il diavolo sceglie come dimora l’albero che si trova al centro del mondo, ma punito da Dio, sprofonda sotto la terra e in questo modo dall’albero cadono molte foglie e ognuna di esse genera un uomo.
A seconda che la medicina passi o meno attraverso una cosmologia, se ne avranno di due tipi:
– una diretta, immediata, che provoca guarigione attraverso il cambiamento di intenzione, parliamo della medicina di Cristo o di Asclepio;
– una che opera in rapporto alla conoscenza del mondo e delle sue relazioni con l’uomo, grazie alle corrispondenze tra i vari regni della natura.
Per cui la terna Cielo-Uomo-Terra rapportata all’essere umano diventa: Testa-Torace-Addome e l’uomo si manifesterà come “microcosmo” nel “macrocosmo”, cioè composto dagli stessi elementi del mondo che lo circonda e a cui appartiene.
La medicina è stata considerata inizialmente come l’arte destinata a riportare gli esseri alle condizioni proprie alla loro realizzazione, per cui è nell’equilibrio degli elementi costitutivi l’uomo che si ha la salute, la predominanza o meno di uno o più elementi, quello che i greci definivano “discrasia”, cioè il disequilibrio, costituisce la malattia. La proporzione corretta di questi elementi rispetto all’uomo in un certo qual modo equivale a mantenere anche un equilibrio tra lui e il macrocosmo. Per questo motivo in un primo tempo la medicina fu una scienza sacra con funzione sacerdotale. Il malessere fisico rappresentava un ostacolo per un cammino spirituale, per il rapporto uomo-universo, per cui una delle funzioni della classe sacerdotale era quella di eliminare questo impedimento risanando il corpo.
È nel rapporto Cielo-Terra, quindi nella centralità dell’uomo rispetto a questo, che si colloca la base della medicina tradizionale, alla cui origine c’è una trasformazione profonda del soggetto, una vera e propria conversione d’intendimento: la guarigione del corpo è in pratica la conseguenza della guarigione dell’anima, ottenuta attraverso una purificazione, una catarsi più o meno lunga. Il malato guarisce perché ricomincia la sua vita con un complesso di energie intatte. Le guarigioni mirano alla rigenerazione dell’essere umano attraverso una riattualizzazione delle cosmogonie. Il rituale di guarigione consiste essenzialmente nella solenne recitazione del mito della creazione del mondo, seguito dai miti dell’origine della malattia e la comparsa del primo “guaritore” che porta agli uomini i primi medicamenti. Quindi il mito cosmogonico incorpora automaticamente il mito dell’origine dei rimedi. Tutto questo è appannaggio di diverse figure, quali il sacerdote, lo sciamano, il guaritore, che si serviranno dei mezzi di trasmissione e di realizzazione già citati: simboli, miti e riti colorati da credenze, superstizione e religione.
IL CONCETTO DI MALATTIA E QUELLO DI CURA
Spiriti, forze ostili, potenze esterne e divinità rappresentano sovente l’aggressione soprannaturale che determina, nella cultura tradizionale, la malattia. Ci si affiderà dunque alle potenze immediate e miracolistiche di un santo taumaturgo, di oggetti sacri, di riti, di scongiuri, formule e piante. L’idea che l’aggressione di forze esterne o che un corpo estraneo penetrando nell’uomo provochino crisi, disordine, squilibrio, determinando la malattia, è molto diffusa nell’ambito delle società tradizionali. Di conseguenza, la terapia è finalizzata all’espulsione di queste energie o oggetti avversi, mediante l’uso di strumenti magico-sacrali carichi di forza uguale e contraria (amuleti, reliquie, immagini e cose sacre), di invocazioni, formule, erbe medicinali. Insomma un insieme di pratiche terapeutiche atte a ordinare al male di abbandonare il corpo del paziente. Una variante della nozione di malattia è quella per cui essa è il risultato di un maleficio, di una fattura, di un malocchio, del furto dell’anima a opera di esseri umani (stregoni, fattucchiere…) o soprannaturali. Altra causa dei malori è considerata la violazione di una norma morale, etica o religiosa, nonché di una regola di comportamento rituale. Così il male inviato dalle divinità ha una funzione punitiva e un valore espiatorio. Un esempio di malattia considerata punizione divina o meglio ancora possessione da parte del demonio è l’epilessia o Male di San Donato. La credenza più diffusa è quella che mette in rapporto il male con la nascita nella notte di Natale, sicché chi nasce il 25 dicembre è destinato a divenire strega o stregone, lupo mannaro o epilettico. In passato era convinzione comune che una donna che avesse mangiato prezzemolo durante la gravidanza, con il suo latte potesse causare al bambino l’epilessia. L’attacco epilettico è favorito dall’influsso delle fasi lunari, chiamato anche “mal di Luna”, è stato sempre considerato un male sacro rivestito da un alone di paura, pregiudizi e impotenza medica nei confronti della cura. Tutto ciò portava a una esorcizzazione attraverso il ricorso a rituali magico-religiosi. Sotto questo aspetto di “malattia culturale” potremmo considerare per esempio la festa celebrata in occasione di San Donato, il 6-7 Agosto, in un paese vicino Lecce, dove migliaia di devoti si recano in pellegrinaggio nella cappella che custodisce l’icona del Santo. I malati giunti alla soglia della chiesa vengono colpiti da violente crisi convulsive che, come nel tarantismo, si manifestano inizialmente con una improvvisa caduta al suolo e un grido acutissimo. Non si può dichiarare con certezza che si tratti di reali casi di epilessia, tuttavia a noi interessa sottolineare come queste crisi, probabilmente di isterismo convulsivo, che comunque palesano conflitti irrisolti, pulsioni rimosse, malesseri emotivi legati alla vita quotidiana, assumano come modello culturale l’attacco epilettico, il male di San Donato. I malati fanno ingresso nella cappella a volte strisciando sul dorso a carponi e rialzatisi, dopo una repentina caduta al suolo, giacciono immobili in posizione supina per qualche minuto. Subito dopo sono colti dalle crisi convulsive, che alternano movimenti parossistici e incontrollati con comportamenti dettati dalla tradizione, come quello di percorrere il tratto fino all’altare strisciando a terra e puntando i talloni sul pavimento. Dopo la crisi partecipano alla processione e alle successive sequenze rituali della festa che costituisce una forma di pellegrinaggio devozionale non volto a ottenere una guarigione immediata. Dato che è il Santo che invia la malattia e provoca la crisi, per punire la persona di una colpa o di una offesa nei suoi confronti, solo lui può decidere quando concedere la grazia della liberazione dalla malattia. La sofferenza del malato rappresenta la forma di espiazione che porterà alla guarigione solo dopo aver assolto a tutti gli obblighi rituali. Il male della luna è così considerato una malattia etnica, che de-negativizza l’accaduto, considerandolo come un fenomeno recuperabile attraverso il rito. In passato il male sacro si riteneva fosse dovuto alle occlusioni dei ventricoli del cervello, con la conseguente perdita della sensibilità, della conoscenza e con movimenti convulsi dei muscoli, causati da mancanza di calore e da abbondanza di umore. Si utilizzavano decotti di fico, ruta, melissa, tiglio, viola purpurea, ma più semplicemente mazzi di chiavi da tenere in mano, scottature con ferri roventi per “purgare” il sangue, collane di valeriana e foglie di alloro da tenere sotto le ascelle. Ci sono comunque rituali sicuramente meno elaborati e più alla portata del giorno: ad esempio, in Calabria, la cura per la congiuntivite prevede l’uso del finocchio, semplicemente passato sull’occhio da una fattucchiera per tre volte recitando una preghiera a Santa Lucia, protettrice della vista. Tale rituale poteva essere modificato con l’utilizzo di un ago usato allo stesso modo del finocchio, ma per curare gli orzaioli.
Continuiamo con altri esempi:
MAL DI STOMACO
Vicino a Roma si usava per i dolori acuti allo stomaco un decotto di foglie di ortica, poiché la peluria delle foglie stesse “grattava” via l’ulcera e lo stomaco guariva.
MAL DI GOLA
Nei pressi di Pordenone, poiché si credeva che il mal di gola fosse legato al fatto di aver mangiato troppo, si somministrava una cura con olio di ricino, che notoriamente è un lassativo.
IMPOTENZA
Per l’impotenza in Ciociaria si usava frizionare i genitali con l’olio di sambuco e un impiastro di “formiche volanti”.
ITTERIZIA
Nel Veneto, contro l’itterizia i contadini usavano bere un decotto di zafferano. Qui ritroviamo il concetto di “DOTTRINA DELLA SIGNATURA” (vedi Altrove n. 9, “Herbaria e le piante per volare”).
In Abruzzo, invece, per curare questo male usavano pestare in un mortaio delle foglie di matricaria, a cui aggiungevano dell’aceto e quando il paziente la sera andava a letto iniziavano la cura: spalmavano per una settimana sulle palme delle mani, sul petto e sulle tempie il miscuglio. Dopo il settimo giorno il malato perdeva il colore giallo e tornava normale.
ERNIA
Interessante anche il culto arboreo per la cura dell’ernia. Si creava un arco arboreo sezionando un ramo o un tronco di quercia nel senso della lunghezza e tra questo si faceva passare l’ernioso, mentre due compari tenevano l’estremità dell’albero e recitavano un rosario.
Successivamente il tronco veniva chiuso e la sorte di colui che era stato sottoposto al rito risultava legata a quella del vegetale. Per cui se l’albero o il ramo cicatrizzava, rigermogliava, la guarigione dell’ernia era assicurata. Le ragioni di questo culto di guarigione erano diverse. Si pensava che essendo l’ernia una rottura, bisognasse passare attraverso un’altra rottura per risanarla. Comunque ricordiamo che presso i Romani l’ernia era considerata una “ramificazione” dell’intestino.
FORUNCOLOSI
Le persone affette da foruncolosi dovevano tenere una manciata di verbena, avvolta in un panno, in una mano e, avvistando una stella cadente dovevano fregare il panno sui foruncoli. Con questo procedimento si sperava che le imperfezioni sparissero.
AFFEZIONI RESPIRATORIE
L’uso dell’angelica per le vie respiratorie è legata al concetto della segnatura, per cui avendo questa pianta il gambo cavo, vi potevano passare aria e acqua come per le vie respiratorie, e per questo era ritenuta efficace per i mali del sistema respiratorio.
FEBBRE
Contro le febbri causate da spavento o da stress, si adoperava un bicchiere unto con dell’aglio fresco, posto sopra l’ombelico per circa mezz’ora tre a quattro volte al dì.
Tanti sono gli esempi che si potrebbero citare per quanto riguarda la medicina tradizionale, ma per chiudere il cerchio terminando il discorso, riporto di nuovo la citazione di Virgilio, per cui: “Poiché si può fare senza medico, non già del medicamento. Il quale intendiamoci, non è la cosa che guarisce, è quella che – fatta ragione dei tempi e della moda – viene per il momento ritenuta atta a guarire”. Partendo da questa considerazione, per altro non conclusiva, risulta ovvio che la mia presa di posizione è relativa ad un concetto di medicina e di cura molto ampio. Qualcosa che oscilla tra la memoria e il vissuto di un popolo e che sempre meno trova spazio in una cultura cosiddetta “occidentale”. Mi chiedo dove sia possibile collocare la guarigione con le piante, la ritualità, il mito ed i simbolismi, che comunque fanno parte di un retaggio ancora presente, se pur limitato ad alcuni contesti e figure particolari. Guaritori di campagna, conciaossa, fattucchiere ed erboristi “tradizionali” costituiscono l’ultimo baluardo di una conoscenza che si va purtroppo perdendo nel tempo.